mercoledì 31 marzo 2010

VIRGINIO BRIVIO SINDACO DI LECCO



Virginio Brivio, candidato del Partito Democratico e del centrosinistra, è il nuovo sindaco di Lecco. Ha sconfitto al primo turno, con un risultato a sorpresa, il candidato del Pdl e della Lega Nord, Roberto Castelli. Brivio ha ottenuto il 50,22 per cento dei consensi mentre Castelli si è fermato al 44,2. Sconfitto alle provinciali dell'estate 2009, Brivio si è preso una clamorosa rivincita dopo 17 anni di governo della Lega Nord. "Regno" che si era fermata nell'ottobre scorso quando 21 consiglieri si erano dimessi mandando a casa in anticipo il sindaco Antonella Faggi.

LA VICENDA STATO-MAFIA


Fu Franco Restivo, ex ministro democristiano degli Interni e della Difesa, a far incontrare Don Vito Ciancimino e il misterioso personaggio legato ai Servizi segreti conosciuto col nome di “Signor Franco”. Evocato spesse volte da Massimo Ciancimino nelle aule di tribunale, nei processi dove viene ascoltato dai giudici in qualità di testimone o di imputato di reato connesso, ma non solo. Il figlio di Don Vito, quel “Signor Franco” (spesse volte Signor Carlo), lo fa giocare in un ruolo chiave nelle più intricate vicende palermitane. Dalla fine degli anni ‘70 a oggi, Franco/Carlo entra ed esce dalle storie di mafia così come coloro che erano certamente un gradino più sotto di lui, i manovali, le “facce da mostro”. Massimo Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori ai pm siciliani, tra Palermo e Caltanissetta, che indagano su fronti diversificati, ma che tendono a intrecciarsi con una certa frequenza, racconta quanto “Franco” fosse vicino al padre in ogni momento e di come abbia seguito da vicino, dopo la scomparsa del sindaco mafioso di Palermo, passi importanti della sua stessa vita, fino al 2006. Massimo Ciancimino lo definisce un uomo che “tira i fili”, un puparo, l’unico in grado di intavolare una trattativa tra Stato e Cosa nostra perché, forse, aveva un piede su ognuna delle due sponde del fiume. Uno che con la stessa facilità entra ed esce dai palazzi più importanti del Paese. Che per comunicare passa tramite la “batteria” del Viminale, senza il timore di non essere ricevuto o ascoltato. Sembra l’immagine del famigerato “grande vecchio”, che sta dietro a ogni mistero italiano che si rispetti.
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Così, mettendo assieme tutti quelli che il giornalista palermitano Salvo Palazzolo chiamerebbe “i pezzi mancanti”, sul mistero di “faccia da mostro” non è così difficile rendersi conto, a poco a poco, che il “mostro” ha fatto parte di una catena di comando molto complessa al vertice della quale c’era senz’altro il Signor Franco. Qualche gradino più in basso troviamo Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde finito in carcere e condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, e i suoi uomini più fidati, come il suo vice Lorenzo Narracci. Mentre “faccia da mostro” diviene, per usare un linguaggio caro agli esperti, una sorta di «riferimento territoriale di prossimità». Un soggetto che conosce bene il territorio e chi lo abita, uno che parla la “lingua” giusta, uno che quando occorre si sporca le mani e torna, in punta di piedi, nell’ombra. Persone, luoghi e fatti. Ma, verosimilmente, potrebbe non essere stato organico alla struttura di intelligence nostrana. Semplicemente reclutato di volta in volta, per fare il lavoro sporco, assumendosi il rischio conseguente, in caso di fallimento, dell’abbandono da parte della struttura dalla quale ha accettato l’incarico. Un cane sciolto a busta paga del Sisde, uno che poteva essere bruciato in qualunque momento ma anche messo lì, come uno specchietto per le allodole, per depistare, per mischiare le carte. Nei mesi scorsi le procure di Palermo e Caltanissetta hanno rivolto dal Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, che oggi è guidato dall’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, un’istanza di accesso ai documenti ufficiali relativi alle attività svolte in Sicilia, in particolare a Palermo, dal Sisde e dal Sismi, nel periodo delle stragi. Compreso l’organico degli 007 impiegati nelle operazioni. Il Dis, a quanto risulta a Il Punto, ha prontamente risposto alle sollecitazioni congiunte delle due procure. «Ma - hanno spiegato gli investigatori - si tratta di una risposta completa da un punto di vista formale». Facile comprendere la diffidenza verso tanta efficienza burocratica. Se è vero, come è vero, che i Servizi di sicurezza hanno carta bianca nella scelta di collaboratori e consulenti individuati con modalità e tecniche “borderline”, il fatto che gli stessi non compaiano in alcun elenco previsto dalla legge, è una naturale conseguenza. Massimo Ciancimino ha riferito di una “faccia da mostro” che con il padre Vito si occupava di tenere saldo il controllo di alcuni settori strategici all’interno della burocrazia regionale. Ciancimino Jr. sostiene di avere riconosciuto, davanti ai magistrati di Caltanissetta, proprio quel funzionario del dipartimento regionale alla sanità, che - secondo più fonti - sarebbe passato a miglior vita. Ma c’è una pista che porta in Calabria. Il mostro a libro paga del Sisde non poteva più esporsi perché l’aspetto, considerata l’impressione generata in chi incrociava il suo sguardo, non gli consentiva più l’operatività che, con le sue capacità, gli aveva permesso fino a quel momento di essere un utile strumento. Così, bruciato il fronte siciliano, quel biondo col viso sfigurato avrebbe deciso di trascorrere gli anni della sua vecchiaia nel continente. In Calabria. In un paesino collinare della provincia di Catanzaro. Ma anche questo resta un sospetto. A Palermo, davanti al pm Nino Di Matteo, Ciancimino avrebbe recentemente fornito ulteriori elementi per risalire all’identità del “Signor Franco”, ma non lo avrebbe riconosciuto in nessuna delle foto che gli sono state mostrate. Tuttavia tra quelle foto Ciancimino Jr. pare abbia individuato solo alcuni collaboratori dello 007. In procura a Palermo, dove le bocche sono cucite, è difficile trovare qualcuno disposto a raccontare cosa è venuto fuori dai riscontri alle dichiarazioni che, lentamente, Massimo Ciancimino sta mettendo a verbale. Specialmente quando si parla di “barbefinte” . Concentrarsi solo sulle “facce da mostro”, dicono gli inquirenti palermitani, è fuorviante. È verso l’alto che la verità va ricercata, verso chi muoveva i fili e le pedine sullo scacchiere siciliano perché il rischio che le varie “facce da mostro” servono a sviare, a depistare, è altissimo. Secondo quanto è riuscito a ricostruire Il Punto (vedi n. 10/2010 su www.ilpuntontc.it) una delle due “facce da mostro” sarebbe stato un sottufficiale della polizia di Stato, di origini siciliane. Per anni, almeno così pare, in servizio presso l’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno, alle dipendenze di Federico Umberto D’Amato (tessera P2 n. 554). Poi sarebbe transitato nella sezione “criminalità organizzata” del centro Sisde di Palermo, quella di via Notarbartolo (vedi sotto) diretta da Contrada e Narracci. “Faccia da mostro” sarebbe rimasto in servizio a Palermo fino al ‘96 e tutta la sua carriera si sarebbe svolta lì, poi la pensione e una collaborazione fino al ‘99. Scompare, a causa del tumore che nel frattempo gli ha aggredito il volto, nel 2004. Parla di lui Luigi Ilardo, il mafioso, vice capo mandamento a Caltanissetta, cugino del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri del Ros, poi la copertura saltò e fu ucciso. Ilardo disse che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, un uomo dello Stato che stava dalla parte sbagliata. Nell’89 parla di lui una donna che, poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti. Poi ci sono i delitti coperti dalla stessa ombra. L’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto ‘89 a Villagrazia di Carini. Agostino, segugio sulle tracce dei latitanti anche per conto dei Servizi, aveva saputo qualcosa che non doveva sull’Addaura. Il padre racconta che un giorno notò vicino l’abitazione del figlio due persone. Uno di questi era «biondo con la faccia butterata e per me era faccia di mostro». Una “faccia da mostro” c’è anche dietro l’omicidio dell’agente di polizia Emanuele Piazza, ucciso e sciolto nell’acido in uno scantinato di Capaci il 15 marzo ‘90. «La Dia, incaricata dalla procura, - scrive Salvo Palazzolo nel libro “I pezzi mancanti” (Editori Laterza, 2010) - individua un dipendente regionale, già interrogato dopo il delitto Piazza, perché il suo nome era contenuto nell’agendina della vittima. È affetto da “cisti lipomatosa” nella parte destra del viso, risulta deceduto nel 2002». E ancora, secondo Ilardo, “faccia da mostro” sarebbe coinvolto nell’omicidio dell’11enne Claudio Domino, ucciso a Palermo il 7 ottobre ‘86 mentre stava rientrando a casa. Secondo gli inquirenti il bambino vide l’amante di sua madre, che era legato a un clan mafioso, e per questo fu giustiziato. «Quel giorno, dove fu assassinato il piccolo Claudio, c’era anche “faccia da mostro”», disse la “gola profonda” del Ros. Un uomo del “signor Franco”. E’ il sospetto dei magistrati che indagano sul nuovo filone delle stragi e della presunta trattativa “Stato-mafia” di quegli anni. La caccia agli uomini che hanno “deviato” l’apparato di intelligence. Raccogliere le prove che possano inchiodare pupi e pupari di ogni grado. Un uomo dello Stato, con la potenza descritta da Ciancimino, non poteva di certo agire per conto proprio ed è forte il sospetto che a garantire “politicamente” certe operazioni non convenzionali non si muovesse solo un fronte interno, ma che a tirare il filo ci fosse una manina d’oltreoceano. A stelle e strisce. Del resto la storia racconta che quelli della “compagnia”, della Cia, erano in Sicilia già dal ‘43. Tommaso Buscetta non voleva parlare del “terzo livello”, negli interrogatori con Giovanni Falcone, e così anche Massimo Ciancimino si ferma un attimo prima, quel nome non lo fa, fa finta di non ricordare o, forse, neanche lo conosce, dice solo che non era uno qualunque. «Vedi Massimo "- gli disse Don Vito - Buscetta aveva paura di fare i nomi del “terzo livello”. Il Signor Franco rappresenta il quarto».

Fabrizio Colarieti e Antonino Monteleone


SPY STORY - Alessio e Svetonio, l’agente e il boss, a scuola di doppio gioco

“Svetonio” e “Alessio”. C’era una spia dietro uno di questi due pseudonimi, ma c’era anche un mafioso, Matteo Messina Denaro, “Alessio”, il nuovo capo di Cosa nostra, il ricercato numero uno. Tra i due c’era un’intensa corrispondenza: decine di pizzini, finiti nelle mani della Dda di Palermo che nel 2007 si è trovata davanti anche a una inconsueta conferma da parte del Sisde: «Svetonio è un nostro uomo». E così la verità è venuta fuori: “Svetonio”, al secolo Antonino Vaccarino da Castelvetrano, insegnante di lettere, poi consigliere comunale per la Dc, assessore e sindaco, era un uomo del Servizio segreto civile. Ma, giusto per non smentirsi, faceva il doppio gioco: al Sisde prometteva informazioni per catturare Messina Denaro, al boss prometteva aiuti politici.

Fabrizio Colarieti


Le sedi “coperte” dei Servizi siciliani Misteri palermitani sotto copertura

Palermo, via Emanuele Notarbartolo. Le sedi “coperte” dei Servizi sono più o meno tutte uguali. Centrali, nascoste tra mille altre attività e tra le mura di edifici anonimi, che di solito sorgono vicino a importanti sedi governative. Uffici facilmente accessibili, spesso protetti da un portiere che sa tutto e che fa finta di nulla. Solitamente si nascondono dietro le insegne di finte agenzie assicurative oppure di inesistenti centri studio, associazioni culturali, istituti di cooperazione o di import- export. Sul campanello c’è scritto semplicemente “agenzia”, “studio”, “istituto” o la sigla di una delle tante Srl che le “barbefinte” utilizzano per coprire l’attività di spionaggio. Non indossano divise, non hanno auto blu né armi, hanno delle segretarie, anch’esse arruolate nella “ditta”, e provano a non dare nell’occhio sembrando semplici impiegati che ogni giorno vanno in ufficio. Anche a Palermo è così. I Servizi negli anni delle stragi - e anche dopo - avevano il loro “centro operativo” in via Nortarbartolo, una delle strade principali del capoluogo siciliano, proprio sopra il “Bar Collica”, all’incrocio con via della Libertà e a due passi dalla sede palermitana della Corte dei Conti. L’esistenza di quell’ufficio è nota da anni: in particolare da quando finì in manette il numero tre del Sisde, Bruno Contrada. Era lì che l’alto funzionario del Servizio segreto civile - condannato definitivamente nel 2007 a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa - aveva il suo ufficio. Dal portone di quel palazzo, che si trova a pochi metri dal punto dove nell’82 fu ucciso con tre colpi di pistola l’agente della Mobile Calogero Zucchetto, sono entrati e usciti decine di 007 su cui ancora oggi le procure di Palermo e Caltanissetta indagano per capire che ruolo ebbero nelle stragi di mafia. A via Notarbartolo aveva la sua “agenzia” anche il Sismi. Lo hanno confermato due funzionari, per un periodo capicentro dei due Servizi a Palermo, durante il processo al maresciallo del Ros ed ex deputato regionale dell’Udc, Antonio Borzacchelli, indagato nell'inchiesta sulle talpe alla Dda palermitana e condannato in primo grado, nel 2008, a 10 anni per concussione, favoreggiamento aggravato e rivelazione di segreti d’indagine. Ciononostante quando finì in manette un’altra talpa, il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, che al telefono si lasciò sfuggire «quelli di via Notarbartolo» alludendo pare al Sismi, gli allora vertici del Servizio militare si affrettarono a smentire l’esistenza di una sede coperta a Palermo. Anche le “facce da mostro” e il famigerato Signor Franco o Carlo, l’alto funzionario in contatto con Massimo Ciancimino fino al 2006, è assai probabile che frequentasse quella sede, ma anche quella precedente, in via Roma. Ma ancora: partirono sempre da via Notarbartolo, tra il 2001 e il 2002, le telefonate verso una delle venti sim in uso all’ex Governatore Salvatore Cuffaro, anch’egli condannato, in appello, a 7 anni per aver agevolato la mafia e rivelato segreti istruttori sempre nell’ambito dell’inchiesta sulle talpe alla Dda. Gli inquirenti, proprio analizzando il traffico in entrata di uno di quei cellulari, hanno scovato 54 chiamate partite, nell’arco di diciotto mesi, dall’utenza fissa in uso in quella sede del Sisde. Puntualmente, scavando tra fantasmi e telefoni coperti, alla ricerca di mafiosi e talpe, spunta regolarmente via Notarbartolo. È il crocevia di tanti misteri, un rompicapo su cui si cimentano da anni i magistrati palermitani e nisseni per dare un volto agli agenti segreti e ai loro collaboratori che per un ventennio hanno frequentato il capoluogo siciliano e il suo sottobosco criminale.

Fabrizio Colarieti


FONTE: Il Punto

venerdì 26 marzo 2010

SOTTO ATTACCO


Ora la sospensione rischia di diventare definitiva. E il vicequestore Gioacchino Genchi di essere cacciato dalla Polizia. Lo scorso 22 marzo, un giorno prima di rientrare in servizio, il consulente di Procure e Tribunali di mezza Italia ha ricevuto da Antonio Manganelli la terza sanzione: questa volta con “l'infamante accusa” di aver partecipato al congresso dell'Italia dei Valori, al quale era stato invitato un mese fa. Motivazione, non c'è che dire, perfettamente in linea con i due precedenti provvedimenti di sospensione: il primo per aver risposto su Facebook alle critiche di un giornalista di Panorama che gli dava del “bugiardo”, il secondo per aver rilasciato un'intervista al giornalista Pietro Orsatti, nella quale raccontava il suo lavoro da consulente.
Se il Tar non dovesse accogliere i suoi ricorsi la destituzione dall'incarico, questa volta, sarebbe automatica. E Gioacchino Genchi - già consulente di Giovanni Falcone, dei magistrati che indagarono sulle stragi del '92 e di molti altri che hanno svolto e svolgono le inchieste più delicate sui rapporti tra mafia, politica e istituzioni - sarebbe costretto a lasciare la Polizia dopo 25 anni di onorato servizio. Mentre in quello stesso servizio continueranno a rimanere poliziotti che al loro attivo hanno pesanti condanne, persino di omicidio, cosa che evidentemente, per il capo Manganelli non sono ritenute “lesive per il prestigio delle Istituzioni”.


Qualche giorno fa, il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, aveva lanciato un messaggio ad Antonio Manganelli: “Se il capo della Polizia si avvalesse ancora di un personaggio del genere, la cosa sarebbe sconcertante e non priva di conseguenze...”. E sarà un caso che la sanzione è arrivata dopo il contributo di Genchi all'inchiesta “Phuncards-Broker”, che ha coinvolto, tra gli altri, i vertici di Fastweb e Telecom Italia Sparkle insieme al (ex) senatore Di Girolamo.
Per l'occasione Libero non aveva mancato di attaccare il pm Romano Di Leo, che si era permesso di affidare la consulenza proprio a Genchi, mentre la procura capitolina stava indagando su di lui, con un'inchiesta avviata dall'allora procuratore aggiunto Achille Toro.
Lo stesso Toro che insieme al collega Nello Rossi, aveva fatto sottrarre l'intero archivio al perito informatico con un provvedimento illecito e si era rifiutato di restituirlo, con un atto di vera e propria eversione giudiziaria, quando il Tribunale del Riesame glielo aveva ordinato.
Lo stesso Toro che di recente è stato costretto a dimettersi perché sospettato di fuga di notizie, favoreggiamento e corruzione. Indagato nell'inchiesta sulle Grandi Opere che ha visto il coinvolgimento di soggetti ai vertici delle istituzioni, compreso il capo della protezione civile Bertolaso.
Nel dare la notizia su Facebook Gioacchino Genchi si è detto determinato a proseguire la sua battaglia. “La mia coscienza e la solidarietà degli italiani onesti - ha scritto - mi impongono di resistere per quella che non è una 'vicenda personale', ma uno degli attacchi più gravi allo stato di diritto”.


Monica Centofante (ANTIMAFIADuemila, 25 marzo 2010)

giovedì 25 marzo 2010

IL PATTO


dal sito www.beppegrillo.it
NICOLA BIONDO PRESENTA IL SUO LIBRO: IL PATTO

I preparativi per l'Unità d'Italia fervono. 150 anni e non li dimostra. Sembra ieri che i francesi ci liberavano a Solferino e che l'esercito sabaudo massacrava decine di migliaia di meridionali. La vera Storia d'Italia non è mai stata scritta. Appartiene a qualche libro, qualche rara testimonianza. L'Italia è un problema metafisico irrisolto. Cos'è? Perché esiste? Da dove viene?Dove sta andando? Il blog inizia da oggi a cercare di dare una risposta. Nicola Biondo ci ricorda che siamo stati liberati dalla CIA e dalla mafia.


1943: Cosa Nostra si fa Stato
Sono Nicola Biondo, sono un giornalista freelance, con Sigfrido Ranucci per Chiare Lettere abbiamo scritto un libro che si intitola “Il patto” abbiamo indagato la trattativa tra Stato e mafia e analizzato i documenti che ci raccontano, come, questa trattativa partita nel 1992/1993 abbia le radici ben piantate nel passato, in quel passato che ha visto gli americani rivolgersi a Cosa Nostra per lo sbarco in Sicilia nel 1943 e che ha consentito a Cosa Nostra di farsi Stato..


Tutto ciò è avvenuto sotto la diretta responsabilità dei servizi segretari americani, dell’Oss, della Cia e ha consentito a Cosa Nostra di diventare quell’esercito della violenza che fino ai giorni nostri può imporre trattative o può scatenare una guerra.
Uno degli argomenti principali per capire com’è stato mai possibile che la banda criminale Cosa Nostra sia diventata così potente nel nostro Paese, abbia conquistato uomini e cose in una porzione molto grande del territorio a sud e abbia iniziato a investire già dalla fine anni 50, primi anni 60 al nord, è capire come mai e com’è stato possibile che Cosa Nostra si sia fatta Stato. E’ una storia che dobbiamo riprendere dal 1941, quando nella cella di uno dei più grandi boss di mafia, Lucky Luciano, a poche decine di chilometri da New York, il boss riceve alcuni ufficiali della marina statunitense. Cosa volevano quegli ufficiali? Volevano che il boss li aiutasse a fare piazza pulita delle spie naziste nel porto di New York. Lucky Luciano riesce non soltanto a prometterlo, ma lo mette in pratica, fa scoprire attraverso i suoi uomini le spie di Hitler nel porto, da lì parte questa storia innominabile anche se ormai conosciuta, la storia incredibile dei rapporti tra i servizi segreti americani e Cosa Nostra. A partire da lì si stringe questo rapporto e attraverso Lucky Luciano e i suoi agganci in Sicilia gli Stati Uniti ottengono le informazioni per operare nel 1943 lo sbarco in Sicilia.
E' subito dopo lo sbarco in Sicilia che Cosa Nostra si fa Stato, con lo sbarco americano i boss mafiosi diventano amministratori dell’ordine pubblico, alcuni addirittura sindaci, è il vecchio sogno di Cosa Nostra di avere non solo un proprio esercito, ma di dettare legge, lo sbarco americano, l’amministrazione americana lo garantisce. A capo della sezione Italia dell’Oss che poi diventerà la Cia c’è un ragazzo di 27 anni, si chiama James Angleton, quest’ultimo mette in piedi all’interno della sezione Italia, un ristretto nucleo di persone, una dozzina al massimo. Nei documenti ufficiali questo nucleo di persone, che si occuperà solo e esclusivamente della Sicilia, verrà chiamato il cerchio della mafia.
A questo gruppo di 007 che si occupano della Sicilia, si aggiungono anche dei giovani in gamba siciliani, tra questi c’è un nome che ricorrerà poi per altri 40 anni, quello di Michele Sindona.
In cosa consiste davvero la presenza degli americani in Sicilia? C’è un’informativa, un report dal titolo emblematico: “La mafia combatte il crimine”. Cosa Nostra diventa l’esercito di occupazione, insieme con gli americani, che gestisce l’ordine pubblico, che deve evitare che le masse contadine potessero invadere e fare a pezzi il latifondo, ma la Sicilia non è soltanto una colonna portante nella politica estera, agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, è un avamposto dal quale si controlla l’intero Mediterraneo L’Intelligence americana capisce che c’è già un’altra guerra da combattere e è quella contro il comunismo sovietico.



Mafia e neofascismo. Portella delle Ginestre
La saldatura tra uomini di Cosa Nostra a cui viene demandato il compito di controllo sociale, di controllo territoriale, vede l’entrata di un ulteriore segmento di potere, è quello incarnato da alcuni elementi dal neofascismo che seppur sconfitto, come la mafia, viene assoldato in chiave anticomunista, simbolo di questo terzo lato, di questa santa alleanza mafia – servizi americani, è la figura di Juan Valerio Borghese che infatti viene salvato dalla fucilazione da parte dei partigiani da alcuni ufficiali americani.


Insieme con i capi mafia, con le spie americane, con elementi del neofascismo italiano, un altro uomo simbolo di questa santa alleanza è bandito Salvatore Giuliano, la santa alleanza si manifesta in tutto il suo orrore il primo maggio 1947, a Portella delle Ginestre, un commando composto da mafiosi, spie, neofascisti, spara sulla folla che festeggia il primo maggio, la festa del lavoro, tutto ciò accade a poca distanza dalle elezioni regionali che avevano visto il trionfo del blocco popolare di sinistra, il bilancio è di 14 morti e di decine di feriti.
La mafia finisce così assoldata in una sorta di guerra civile contro il latifondo, il voto popolare, la miseria, e Salvatore Giuliano lo si potrebbe definire come un nome collettivo dietro il quale si nascondono strategie, sigle e personaggi lontani anni luce dai volti truci dei mafiosi.
Dietro Giuliano c’è una cerchia di personaggi che vagheggiano una Sicilia nazione autonoma o uno Stato federato agli Stati Uniti, ma soprattutto c’è un progetto preciso, studiato a tavolino dei documenti dell’Oss e poi della Cia, verrà chiamato: "Piano X" che prevede l’assistenza, il finanziamento e l’armamento di movimento anticomunisti, di chiara matrice fascista, affinché promuovano tutte quelle azioni di sabotaggio, di guerriglia e di disturbo, da attribuire al fronte popolare composto da comunisti e socialisti.
Il quadro di questa Santa alleanza viene completato dall’alta borghesia siciliana, da quella nobiltà nera che con l’avvento della Repubblica e delle riforme sociali, non ha alcuna intenzione di perdere il proprio potere.
Ci sono in particolare due esponenti dell’alba borghesia siciliana che raccontano perfettamente questa storia, uno è il principe Giovanni Alliata di Monte Reale, un massone, un fascista e che in seguito verrà coinvolto nello scandalo della loggia P2, secondo alcune testimonianze questo principe sarebbe uno degli ideatori della strage di Portella delle Ginestre, finirà poi in seguito coinvolto anche nei tentativi di golpe avvenuti negli anni 70, ci ritroviamo davanti, come dice il Giudice Roberto Scarpinato, a una lupara proletaria e un cervello borghese.
Un altro importante nome è quello di Vito Guarrasi, il vero dominus della vita politica e economica siciliana per quasi 50 anni, una foto lo immortala nel 1943, appena ventinovenne alla firma dell’armistizio tra Italia e Stati Uniti, a volerlo lì è un importante generale, il generale Castellano, uno degli architetti di quella santa alleanza tra spie, mafia e neofascisti. Molti anni più tardi l’avvocato Guarrasi ammetterà di essere stato in stretti rapporti di stima per ragioni di servizio proprio con l’Oss e poi con la Cia, era una spia.
In quegli anni sono tantissimi i rapporti che indicano come uno degli strumenti usati dalle classi dirigenti italiane e siciliane era la carta del Movimento separatista, una sorta di lega del sud che oggi stiamo rivedendo nel panorama politico, la manovalanza usata a Portella delle Ginestre, viene però presto sacrificata. Giuliano muore in seguito a una trattativa tra la mafia e i Carabinieri che mettono in scena una fiction degna di una serie televisiva, un conflitto a fuoco, assolutamente inesistente in cui il bndito, Salvatore Giuliano assurto come il nemico pubblico N. 1 in Italia, sarebbe stato ucciso, ma non è così!
La storia inventata di un conflitto a fuoco in cui Salvatore Giuliano avrebbe trovato la morte, viene scoperta da un eccezionale giornalista, Tommaso Besozzi, che manda in frantumi la versione ufficiale e scrive un articolo dal titolo chiarissimo, definitivo: “Di sicuro c’è solo che è morto”, di sicuro oggi sappiamo che Salvatore Giuliano è stato tradito, ucciso nel suo letto e portato su un set, dove è stata allestita la sua morte, un conflitto a fuoco inesistente. Aa tradire Giuliano è un suo cugino, Gaspare Pisciotta, che di lì a poco, terrorizzato per i segreti di questo accordo tra lo Stato e Cosa Nostra, deciderà di raccontare tutto al processo per la strage di Portella. Dice Pisciotta una frase che forse è ancora molto, molto attuale: “Banditi, Polizia e mafia sono un corpo solo come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.
Il 9 febbraio 1954 a Gaspare Pisciotta verrà servito un caffè avvelenato e morirà in carcere. E' da allora, scriverà qualche anno dopo Leonardo Sciascia, che l’Italia diventa un Paese senza verità, anzi viene fuori una regola, che nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti criminali, delittuosi in cui ci sia minimamente attinenza con la gestione del potere.
Questa lunga storia che odora di morte, miseria e violenza, questa santa alleanza, non è altro che il frutto avvelenato della guerra al nazifascismo, Portella delle Ginestre è il primo atto terroristico che secondo gli storici fonda la Prima Repubblica, e come la Prima Repubblica è stata fondata sul sangue versato a Portella, la seconda Repubblica nasce sul sangue versato a Capaci e a Via d’Amelio





Gli Stati Uniti e l'Italia
Questa lunga storia di mafia, di colletti bianchi, di spioni e di servizi segreti, la ritroveremo come una costante in tutti i delitti di mafia e in molti atti di terrorismo politico avvenuti in Italia a partire dal 12 dicembre 1969, dalla strage di Piazza Fontana. E' assolutamente innegabile l’influenza che gli Stati Uniti hanno avuto nelle scelte politiche, sociali e economiche di questo Paese.


è noto che noi abbiamo in Italia moltissime basi americane, al cui interno sono celati ordigni nucleari, noi siamo una sorta di portaerei americana nel cuore del Mediterraneo. E' passato abbastanza tempo per poter affermare che vi furono pesanti interventi degli Stati Uniti nella vita politica italiana, il primo è quello per le elezioni del 1948, nel 1949 l’Italia fu il primo Paese che usciva sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale a ricostruire i suoi servizi segreti e fu reso possibile su impulso americano, gli americani per tutti gli anni 50 chiesero costantemente ai governi italiani di mettere fuori legge i partiti della sinistra, il PCI e il PSI. Addirittura furono approvate alcune leggi che però non furono mai fino in fondo messe in pratica, una su tutte, anche molto divertente, del 1953 vietata lo strillonaggio dei giornali, quindi i ragazzini che vendevano giornali per esempio di sinistra non potevano annunciare il titolo del giornale nelle vie e nelle piazze. Vii fu un fortissimo controllo da parte degli americani, soprattutto delle zone di confine, in maniera particolare il confine orientale su Trieste e in Friuli. Vi è stato, e probabilmente vi è tutt’ora, un fortissimo controllo sul sistema delle telecomunicazioni.
Il caso più eclatante di coinvolgimento degli americani nelle vicende italiane è sicuramente stato il caso Mattei, la morte di Ernico Mattei che era il capo dell’ENI, l’Ente Nazionale Idrocarburi, che consentiva all’Italia l’approvvigionamento di materie prime, di petrolio, anche quella è ormai una storia che possiamo raccontare.
Enrico Mattei e la sua politica espansionista nella ricerca di materie prime a favore dell’Italia, non era assolutamente vista di buon occhio dagli americani, non potevano consentire che Mattei non solo stringesse accordi con i Paesi del Medio Oriente o che potesse stringere accordi addirittura con l’Unione Sovietica, ma che si espandesse anche in zone come l’Indonesia che era il giardino di casa del dominio americano.
Enrico Mattei muore in un attentato. La giustizia dei tribunali ha provato a portare in aula il caso Mattei, con certezza possiamo dire che in quell’attentato, l’aereo di Mattei fu sabotato, ebbero un ruolo di manovalanza proprio alcuni uomini di Cosa Nostra, l’aereo di Mattei infatti partiva da Catania e doveva atterrare a Milano.
Non sarebbe corretto dire che tutto quello che è successo in Italia, nel bene o nel male, sia stato causato dall’influenza americana. Possiamo dire invece, con buona certezza, che gli americani hanno a un certo punto accettato l’anomalia di un Paese che aveva una forte opposizione comunista e socialista e, allo stesso tempo, un governo come quello della Democrazia Cristiana, che era sì alleato agli Stati Uniti, ma culturalmente molto lontano dal mondo anglosassone e quindi protestante, mentre la Democrazia Cristiana aveva un legame fortissime con l’oltre Tevere, con Città del Vaticano, con la chiesa cattolica. L’anomalia italiana fu accettata solo nella misura in cui l’Italia non avesse voluto diventare una potenza nello scacchiere mondiale, finché si fosse accontentata di essere una potenza a medio raggio si potevano accettare una serie di anomalie. Questo è visibile proprio nella politica energetica di Mattei e poi negli scontri, anche molto duri, che l’Amministrazione americana ha avuto con i governi italiani quando negli anni 70 e 80 i governi italiani hanno direttamente trattato con i Paesi mediorientali per il petrolio. L’orgoglio nazionale di questo Paese viene fuori soltanto quando si tratta della nazionale di calcio e del petrolio.
Senza alcun dubbio vi sono state e vi sono tutt’ora cessioni di quote di sovranità nazionale a favore dell’alleato americano e questo è visibile nel soltanto nel campo militare o nel campo politico, ma è stato anche nel campo scientifico, nella chimica, nella ricerca atomica. Ciò di cui tanto si parla, la fuga dei cervelli dalle università, dalle aziende italiane, è un problema che data agli anni 50. Questo paese è stato terra di conquista, non solo terra di confine, ma soprattutto terra di conquiste per i migliori brevetti italiani come quello della plastica che è stato brevettato in Italia, la plastica fine, quella che usiamo tutti i giorni in casa.
Gli Stati Uniti in un certo senso hanno fatto campagna acquisti in questi campi, nel campo della ricerca scientifica, per esempio nel campo dell’industria, spesso e volentieri rendendo più povero questo Paese.





Le stragi e i tentativi di golpe
Però va anche detto questo, si è spesso parlato del fatto che strutture spionistiche, militari americane abbiano avuto un ruolo nella storia delle stragi italiane, nella storia della strategia della tensione, anche su questo vanno dette delle parole definitive di chiarezza, Ordine nuovo, gruppo terroristico di matrice fascista, resosi responsabile di una serie di atti terroristici in Italia, a partire da Piazza Fontana, ma anche prima e anche dopo, non aveva rapporti diretti con strutture di intelligence americane, gli americani non li pagavano per mettere le bombe, gli americani avevano dei propri uomini all’interno di Ordine nuovo,


esponenti di Ordine nuovo erano fonti degli americani, uno in particolare era un’antenna informativa degli americani e nello stesso tempo l’artificiere di Ordine nuovo, è probabilmente l’uomo che ha confezionato la bomba di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969. Va anche detto che dare responsabilità che non sono emerse giudiziariamente agli americani nel periodo delle stragi, significa anche minimizzare il ruolo di una certa classe dirigente in Italia.
Non possiamo dimenticare che sia la storia di Cosa Nostra, sia la storia di alcuni gruppi terroristici di estrema destra in Italia, quelli che hanno messo tecnicamente e fisicamente le bombe nelle banche, nelle stazioni, è una storia che riguarda le classi dirigenti, il potere di questo Paese. Abbiamo avuto esponenti, troppi, tanti esponenti della classe dirigente italiana che erano pronti a un bagno di sangue e l’hanno messo in pratica, con Piazza Fontana, con Piazza della Loggia, con Bologna, con i tentativi di golpe, anche sui tentativi di golpe va detta una parola di chiarezza. Gli Stati Uniti erano sicuramente a conoscenza, per esempio, del golpe Borghese che avrebbe visto la partecipazione di alcuni importanti uomini di Cosa Nostra. In quel caso la Santa Alleanza che si manifesta a Portella delle Ginestre, la stessa uguale Santa Alleanza si è manifestata con il tentativo del Golpe Borghese.




Le spie americane
Ci sono due casi famosi di spie americane che hanno lavorato in Italia: uno è un caso che ha contorni divertenti, è quello di Ronald Stark che ha una biografia da storia del rock, in effetti Ronald Stark nasce nel mondo del rock psichedelico californiano, si dice che era un caro amico di Jim Morrison. Ronald Stark è anche un grande commerciante di pasticche di Lsd negli anni 60 in tutta la California e poi in Europa.


Stark con questo curriculum di tutto rispetto viene assoldato dalla Cia per una serie di operazioni, una in particolare si chiama operazione Blue Moon che si è realizzata proprio nei confini statunitensi per distruggere la protesta che montava dai campus universitari americani, la protesta contro la guerra nel Vietnam, la Cia decide di finanziare la produzione di milioni e milioni di pasticche di Lsd da immettere nel mercato, sembra fantascienza, ma la storia la raccontano gli stessi documenti della Cia.
Ronald Stark nella prima metà degli anni 70, si trasferisce in Italia, ha dei contatti incredibili, per esempio con il capo del Servizio Segreto Militare Vito Miceli, con Salvo Lima, il pro console andreottiano, è l’uomo di cerniera tra mafia e politica in Sicilia. Viene arrestato per trasferimento di stupefacenti, in carcere entra in contatto con i fondatori delle Brigate Rosse, Curcio e Franceschini, a cui dà una serie di dritte per procurarsi delle armi in alcuni campi di addestramento in Medio Oriente, una storia assolutamente da romanzo. Ronald Stark viene interrogato dai magistrati italiani, questi ultimi gli chiedono chiaramente se lui è della Cia, se lui è una spia americana e lui in maniera assolutamente serafica, ve lo potete immaginare come un classico hippy, capelli lunghi, orecchino e sguardo un po’ allucinato, dice: c’è una legge in America che punisce le spie che ammettono di essere delle spie e si chiude nel suo assoluto silenzio.
Scontati alcuni mesi di pena in carcere viene fatto uscire con uno stratagemma giuridico, portato alla base americana di Camp Derby in Toscana e da lì scompare. e' stato fatto qualche anno fa un funerale a Ronald Stark, ma secondo alcuni rapporti dei servizi quella bara era vuota, il mistero della vita e della morte di Ronald Stark continua.
Un'altra spia che ha lavorato in Italia per conto degli americani è il milanese Carlo Rocchi, quest’ultimo si è occupato del trasferimento di alcuni importanti gerarchi nazisti in sud America, ha lavorato in centro America, ha lavorato in prima linea in tutte quelle guerre che hanno visto gli Stati Uniti impegnati sia nel centro e nel sud America, sia nel sud est asiatico, Carlo Rocchi lo ritroviamo in un caso di depistaggio delle indagini sulla strage di Piazza Fontana.
In sostanza Rocchi, venuto a sapere che parte delle indagini riguardava uomini di Ordine nuovo in contatto con ufficiali Nato americani di Verona, prova a depistare le indagini e si mette in contatto con un testimone dell’inchiesta, proponendogli di dire cose assolutamente false o indimostrabili. Questo tentativo di depistaggio viene scoperto dal Giudice Salvini, dall’ufficiale dei Carabinieri Massimo Giraudo e Carlo Rocchi viene interrogato e in maniera assolutamente serafica dice: "Perché vi stupite, lavoro per un governo alleato all’Italia, quindi se gli interessi americani vengono “colpiti” da un’inchiesta, sono in diritto di fornire le notizie su questa inchiesta agli americani".
E’ una buffonata ovviamente ed è un reato quello che ha compiuto Carlo Rocchi. Il suo nome verrà anche fuori per quanto riguarda l’inchiesta Mani Pulite, questa è un’altra grande domanda che ci si è sempre fatti, ci sono stati centri di potere occulto, i Servizi Segreti che hanno agito sull’inchiesta contro la corruzione che sono state fatte in Italia, Carlo Rocchi per esempio prova a carpire informazioni a alcuni magistrati della Procura di Milano, il suo nome finisce in uno strano e mai fino in fondo indagato progetto di attentato al giudice D’Ambrosio che era il vice di Borrelli alla Procura di Milano. Carlo Rocchi sicuramente era uno di quegli agenti americani che in Italia ha lavorato sempre in prima linea, sotto copertura e con strettissimi legami con i servizi segreti italiani, anche andando in alcuni casi ben oltre la legge.




Sovranità nazionale e FMI
L’influenza americana nelle vicende italiane è innegabile, oggi però nel momento in cui si parla di cessione di quote di sovranità nazionale, il problema non è più il rapporto, non è più solo il rapporto tra l’Italia e gli Stati Uniti, o tra l’Italia e la Russia, o l’Italia e la Cina, il problema è un altro.


L’influenza americana nelle vicende italiane è innegabile, oggi però nel momento in cui si parla di cessione di quote di sovranità nazionale, il problema non è più il rapporto, non è più solo il rapporto tra l’Italia e gli Stati Uniti, o tra l’Italia e la Russia, o l’Italia e la Cina, il problema è un altro. Ci sono istituzioni finanziarie internazionali che come la Nato nel passato, nel campo militare e politico, oggi hanno un’enorme forza nel sottrarre potere alle istituzioni democratiche, in particolare mi riferisco al Fondo Monetario Internazionale (FMI). E' di questi giorni la notizia che la Grecia non vuole rivolgersi per un prestito, per la sua fragilissima economia ormai al default, all'FMI. Questo è un punto che andrebbe affrontato perché farsi prestare dei soldi dall'FMI, significherebbe dare in gestione parte della vita economica dei cittadini di quello Stato, significherebbe appaltare le scelte di politica fiscale a un’istituzione che non è stata eletta da nessuno e all’interno della quale gli americani hanno un ruolo evidentemente predominante, quindi la cessione di quote di sovranità internazionale, ormai, è qualcosa che avviene con modalità molto diverse che nel passato e direi quasi senza spargimento di sangue, fino a quando non si arriva al default economico totale. com’è avvenuto in Argentina.

martedì 23 marzo 2010

IL PONTE SULLO STRETTO


dal sito: www.19luglio1992.com
Dal prossimo mese di aprile sarà in libreria il lavoro di Antonio Mazzeo “I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina” (Edizioni Alegre, Roma, costo 14 euro). Il libro, sulla base di una documentazione che privilegia le fonti giudiziarie, fornisce una sistematizzazione di innumerevoli denunce e indagini sugli interessi criminali che ruotano attorno alla costruzione del Ponte sullo Stretto. La prefazione è stata curata da Umberto Santino del Centro Siciliano di Documentazione Antimafia “Giuseppe Impastato”.


Dall’Introduzione de “I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina”
Speculatori locali o d’oltreoceano; faccendieri di tutte le latitudini; piccoli, medi e grandi trafficanti; sovrani o aspiranti tali; amanti incalliti del gioco d’azzardo; accumulatori e dilapidatori di insperate fortune; frammassoni e cavalieri d’ogni ordine e grado; conservatori, liberali e finanche ex comunisti; banchieri, ingegneri ed editori; traghettatori di anime e costruttori di nefandezze. I portavoce del progresso, i signori dell’acciaio e del cemento, mantengono intatta la loro furia devastatrice di territori e ambiente. Manifestazioni di protesta, indagini e processi non sono serviti a vanificarne sogni e aspirazioni di grandezza. I padrini del Ponte, i mille affari di cosche e ’ndrine, animeranno ancora gli incubi di coloro che credono sia possibile comunicare senza cementificare, vivere senza distruggere, condividere senza dividere.

Agli artefici più o meno occulti del pluridecennale piano di trasformazione territoriale, urbana, ambientale e paesaggistica dello Stretto di Messina, abbiamo dedicato questo volume che, ne siamo consapevoli, esce con eccessivo ritardo. Ricostruire le trame e gli interessi, le alleanze e le complicità dei più chiacchierati fautori della megaopera, ci è sembrato tuttavia doveroso anche perché l’oblio genera mostri e di ecomostri nello Stretto ce ne sono già abbastanza. E perché non è possibile dimenticare che in vista dei flussi finanziari promessi ad una delle aree più fragili del pianeta, si sono potuti riorganizzare segmenti strategici della borghesia mafiosa in Calabria, Sicilia e nord America. Forse perché speriamo ancora, ingenuamente, che alla fine qualcuno avvii una vera inchiesta sull’intero iter del Ponte, ricostruendo innanzitutto le trame criminali che l’opera ha alimentato. Chiarendo, inoltre, l’entità degli sprechi perpetrati dalla società Stretto di Messina. Esaminando, infine, i gravi conflitti d’interesse nelle gare d’appalto ed i condizionamenti ideologici, leciti ed illeciti, esercitati dalle due-tre famiglie che governano le opere pubbliche in Italia.

Forse il recuperare alla memoria vicende complesse, più o meno lontane, potrà contribuire a fornire ulteriori spunti di riflessione a chi è chiamato a difendere il territorio dai saccheggi ricorrenti. Forse permetterà di comprendere meglio l’identità e la forza degli avversari e scoprire, magari, che dietro certi sponsor di dissennate cattedrali nel deserto troppo spesso si nascondono mercanti d’armi e condottieri delle guerre che insanguinano il mondo. È il volto moderno del capitale. Ribellarsi non è solo giusto. È una chance di sopravvivenza.


Scheda autore

Antonio Mazzeo, militante ecopacifista ed antimilitarista, ha pubblicato alcuni saggi sui temi della pace e della militarizzazione del territorio, sulla presenza mafiosa in Sicilia e sulle lotte internazionali a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ha inoltre scritto numerose inchieste sull’interesse suscitato dal Ponte in Cosa Nostra, ricostruendo pure i gravi conflitti d’interesse che hanno caratterizzato l’intero iter progettuale. Con Antonello Mangano, ha pubblicato nel 2006, I"l mostro sullo Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte" (Edizioni Punto L, Ragusa).

lunedì 22 marzo 2010

MAFIA IN LOMBARDIA


Sono le grandi opere a essere, come sempre, nel mirino delle mafie che pascolano in Lombardia. Ricorderete che ci siamo lasciati – nello scorso post pubblicato su questo blog l’11 febbraio – con le preoccupazioni espresse dalla prefettura lombarda in vista di Expo 2015 a Milano. Ebbene, la parte sulle rimanenti province della relazione del prefetto Gian Valerio Lombardi sulla “criminalità organizzata in Lombardia” messa nelle mani della Commissione parlamentare antimafia il 21 e il 22 gennaio 2010 (e a quella data ovviamente aggiornata), riparte da dove aveva finito. Il prefetto Lombardi, nella parte relativa a Bergamo e provincia parte con i piedi di piombo. Allo scopo di fronteggiare “presumibili tentativi di insinuazione della malavita nel flusso degli stanziamenti per la realizzazione delle grandi opere programmate dal Cipe – si legge infatti a pagina 40 della relazione - la prefettura di Bergamo ha intrapreso una serie di iniziative di prevenzione in ambito antimafia che riguardano il monitoraggio di tutte le fasi dei relativi lavori, sia per i progetti che coinvolgono province contermini, quali i collegamenti stradali come la cosiddetta Bre.be..mi (cioè il tratto autostradale Brescia-Bergamo-Milano n.d.a.) o la Pedemontana (cioè 67 km di autostrada, 20 km di tangenziali e 70 km di nuova viabilità locale, che collegherà cinque province, Bergamo, Monza e Brianza, Milano, Como, Varese, in un territorio abitato da 4 milioni di persone, dove operano ed hanno bisogno di muoversi oltre 300mila imprese, n.d.a), sia per opere di rilievo locale, quali la tangenziale Sud di Bergamo, attualmente in corso di completamento”.


UNA TORTA DA 7 MILIARDI CHE FA TANTA GOLA



E’ scontato che queste opere facciano gola, tanta gola alle mafie che albergano in Lombardia. La sola realizzazione della Pedemontana richiede un impegno finanziario di 5 miliardi, di cui 4,1 destinati alla costruzione dell’infrastruttura vera e propria, oltre 100 milioni di opere compensative e territoriali ed 800 milioni di oneri finanziari e gestionali nei trent’anni di durata della concessione.

E’ del 26 gennaio la notizia (si veda www.pedemontana.com) che è stato dato il via libera alla mega gara da 2 miliardi, mentre è del 5 febbraio la notizia che a Cassano Magnago (Varese) è stato aperto il primo cantiere.

La Brebemi (62,1 chilometri che attraversano 5 province) ha un valore di 1,6 miliardi interamente sostenuti dai privati e fino al 2012 (anno in cui i lavori dovrebbero terminare) darà lavorò a circa 30mila persone. La prima pietra è stata posta il 22 luglio 2009, quindi se i tempi saranno rispettati c’è da gioire anche perché (come si legge sul sito www.brebemi.it) i lombardi risparmieranno 6,8 milioni di ore all’anno in ingorghi e ritardi e il relativo imcremento del Pil (da risparmi e opera) sarà di circa 382 milioni all’anno.

La stessa società Brebemi spa ha a cuore il tema della legalità se è vero, come è vero, che il 16 gennaio 2010 la società e la prefettura di Bergano hanno stipulato un protocollo di legalità per evitare infilitrazioni mafiose.

Come leggo sul Giorno del 17 gennaio a pagina 3, era da tempo che il rischio era stato sollevato dagli stessi sindacati.


La Tangenziale Sud ha un costo di oltre 150 milioni e sulla realizzazione di quest’opera, come sulle altre del resto, sono insorte le associazioni ambientaliste.

Comunque per queste tre sole opere il valore sfiora i 7 miliardi. Volete che non facciano gola ai mafiosi?




APRONO I CANTIERI E APRE LA ZONA GRIGIA


E infatti leggete cosa scrive il prefetto Lombardi su questi lavori. “Già dalle battute iniziali delle indagini promosse dal gruppo interforze istituito presso la prefettura – scrive sempre a pagina 40 della relazione – sono in effetti emersi alcuni tentativi di infiltrazioni di imprese collegate a cosche mafiose, sia diretti che attraverso sistemi di scatole cinesi che hanno suggerito un innalzamento della soglia di attenzione. A tal fine è stato disposto, con apposito decreto prefettizio, l’accesso da parte del gruppo ai cantieri del costruendo 1° lotto (Treviolo/Stazzano) della citata Tangenziale. Gli esiti del primo sopralluogo, effettuato congiuntamente il 16 giugno 2009 da parte del pesonale della Dia (Direzione investifativa antimafia n.d.a.) di Milano, delle forze di polizia territoriali e di funzionari della Direzione provinciale del Lavoro, hanno acclarato il sostanziale rispetto delle normative sul lavoro nell’impiego di uomini e mezzi, nonché la regolarità della presenza di operai stranieri. Tuttavia da verifiche incorociate sugli assetti societari delle 13 imprese (compresa la Cavalieri Ottavio spa corrente in Dalmine in veste di subappaltante) le cui maestranze o i cui macchinari erano al momento presenti, sono emersi, in particolare a carico di due di esse, legami con ambienti malavitosi. Si tratta della Escavazioni costriuzioni e trasporti Escot srl sedente in Bruzzolo (To) e della Spf-Società perforazioni fondazioni srl di Caserta estromesse dai subappalti della committente Provincia di Bergamo, la prima a seguito di una segnalazione della Dia e di successiva informativa della prefettura di Bergamo e la seconda in quanto destinataria di un’informazione antimafia atipica della prefettura di Caserta. Una terza ditta, la Eurofondazioni Italia srl di Gricignano d’Aversa (Ce), al centro di intrecci societari con la Spf già oggetto di interdizione antimafia emessa dalla Prefettura campana, è stata poi allontanata dai cantieri a seguito della segnalazione della Provincia da parte della prefettura di Bergamo. In tutti i casi individuati i subappaltanti avevano posto in essere un artificioso frazionamento del contratto, allo scopo di sfuggire ai vincoli del Dpr 252/98 che impone, per i subappalti di importo superiore a 150mila euro, l’obbligo di richiedere la certificazione antimafia alla prefettura competente”. Non ho notizie di repliche da parte delle imprese coinvolte (la relazione del resto è stata protocollata e resa “riservata” dal Senato addirittura 3 giorni prima della missione a Milano della Commissione parlamentare antimafia, vale a dire il 18 gennaio, giorno a cui si riferisce ogni aspetto temporale di questo servizio. Chiunque volesse intervenire per replicare, aggiungere notizie o dare altre versioni è libero di farlo su queso blog, a partire dai soggetti citati in questo servizio).

Se questi sono i risultati del primo accesso nei cantieri di un’opera minore (rispetto ai lavori autostradali descritti) non c’è da stare allegri e bene faranno committenti, imprese aggiudicatrici e Istituzioni ad aprire gli occhi.






LE ALTRE PROVINCE SOTTO LA LENTE A PARTIRE DA LODI


Rispetto a questa disamina su Bergamo, nuova e inquietante anche perché attualissima, passa in cavalleria la disamina di tutte le altre province dove, in realtà, c’è molto meno della realtà. Credo che il prefetto Lombardi si sia limitato a descrivere solo gli ultimi mesi di indagini e inchieste perché per il resto rimanda a una mappa e a una geografia delle cosche calabresi, campane e siciliane in grandissima parte conosciute e note.

E – guarda caso – le parti più interessanti sono ancora sulle grandi o medie opere come quando, analizzando la provincia di Lodi il prefetto Lombardi, a pagina 63 si sofferma sulla ditta Edilstrade fratelli Buttò srl di San Angelo Lodigiano, amministrata dai fratelli Maurizio e Giovanni Buttò. “La citata ditta – si legge – ha partecipato ai lavori di riqualificazione della ex SS 235 (nel tratto compreso tra Lodi e la barriera dell’A1). Lungo detta tratta è ubicata la cascina Ladina

,dove la società in questione ha tutt’ora una porzione di area adibita a deposito dimezzi stradali e materiali dove è risultato essere domiciliato il pluripregiudicato Marcello Coletta, notoi personaggio di spicco della mafia siciliana”.

ANCHE SONDRIO NEL MIRINO



Continuando a privilegiare in questa relazione gli aspetti delle opere pubbliche (che al Nord si fanno e si faranno ancora e dunque sono una enorme mangiatoia per le cosche) vale la pena di leggere cosa scrive il prefetto Lombardi su Sondrio.

Analizzando i controlli effettuati dal gruppo interforze dopo il 24 giugno 2009, relativamente ai lavori del primo lotto della nuova SS 38, si scopre che l’impresa individuale Alessandro Accursio è stata destinataria di un’informativa antimafia interdittiva della prefettura di Como del 22 dicembre 2008; Cds strade srl è stata oggetto di un’informativa antimafia supplementare atipica della prefettura di Varese del 15 luglio 2009; la Rv-Ef Trans di Francesco Raccosta è risultata gravata da precedenti penali ritenuti indicativi di una presumibile ingereneza della criminalità mafiosa. “Sulla segnalazione della prefettura l’Anas – si legge ancora – con ordine di servizio n.6 dell’8 ottobre 2009 ha ordinato all’Ati Salini Locatelli (ora Morbegno scarl) l’allontanamento immediato del primo e la risoluzione dei contratti in essere e ha richiesto informazioni dettagliate sulle attività svolte dalle altre società”. Al momento in cui scrivo, di più, non è dato sapere ma, ripeto, chiunque, se è in grado, può aggiungere particolari. Il blog è democrazia anche per questo.

In questa girandola di informazioni fa persino tenerezza scoprire che la provincia di Varese (per la sua vicinanza alla frontiera e per la quarantennale penetrazione mafiosa) ha ben poco da segnalare se non il profondissimo radicamento della ‘ndrangheta (in particolar modo) che mina in profondità ogni attività economica. E in vista di possibili e nuovi lavori nell’area di Malpensa e zone limitrofe, la pancia delle mafie si fa capanna.

r.galullo@ilsole24ore.com

CEMENTIFICAZIONE SUI LAGHI



Spesso la saggezza popolare coglie nel segno: “sono sempre le cose più belle ad andarsene per prime”. Coglie nel segno soprattutto quando si parla di paesaggio: sono i luoghi più belli del nostro patrimonio a essere oggi maggiormente aggrediti dalla “speculazione” edilizia. Una “speculazione” nel vero senso del termine, perchè si tratta del consumo di un bene comune quale il suolo (il verde, i campi coltivati) a vantaggio di un attore economico rispondente a una finalità di profitto per pochi. Troppo pochi, se paragonati al valore della risorsa sottratta. Caso emblematico è quello delle seconde o terze case, poco abitate e usate, sempre più spesso colpevoli di cancellare con la loro estensione l'identità del territorio aggredita dalla "speculazione" edilizia, non a caso una delle "brutture" più votate dagli italini nel cnsiento del FAI "I Luoghi del Cuore 2008".

L'esempio dei laghi lombardi, che si stanno via via trasformando in “laghi di cemento”, è molto indicativo. Partiamo dal Lago di Garda, le cui coste sono ormai ricoperte di costruzioni per lo più di edilizia abitativa sfruttata unicamente nei fine-settimana. Lascia perplessi, dinnanzi all'incantevole bellezza dei luoghi, la qualità architettonica di questa “crescita”. Non si riesce mai a leggervi continuità linguistica, che rappresenta la radice su cui fondano la loro bellezza i nostri borghi.
Per giunta, molti interventi si offrono sul mercato come maldestri tentativi di valorizzazione del territorio:

il “cannocchiale ottico” fatto di villette che “valorizza” la settecentesca chiesa di Santa Maria Assunta a Manerba (BS), al posto del paesaggio verde su cui da secoli dominava;
la cascata naturale, sempre a Manerba, “incorniciata” da un vistoso condominio;
le sei ville con piscina a Moniga, la cui costruzione è stata fermata dal Soprintendente Luca Rinaldi, che avrebbero potuto “valorizzare”, assediandola, la suggestiva Rocca.
Anche sulle acque del Lago di Como incombe un serpeggiante e continuo fiorire di nuove edificazioni e di progetti faraonici per la “valorizzazione” del lago:

a Lecco, il progetto di un porto in stile Montecarlo è stato fermato più di un anno fa, anche grazie al significativo contrasto del FAI, ma l'attento capo delegato di Lecco, Gianfranco Scotti, ha già colto indizi di un possibile ritorno della proposta;
Villa Berera, Villa Bellemo, Villa Caldirola a Lecco e Villa Roccabruna a Blevio dimostrano come l'avanzata del cemento investa anche le ville storiche che spesso vengono deturpate in nome del raggiungimento della massima redditività;
a Lenno, l'Amministrazione Comunale ha previsto un'espansione edilizia sulla penisola del Lavedo e un incremento di volumetria nei pressi dell'abbazia dell'Acquafredda in “nome” di forme compensative che mai avrebbero potuto ripagare la perdita della risorsa suolo né della qualità paesistica;
il Comune di Menaggio sta per essere riempito di villette, resort, case-vacanze, con nomi accattivanti come “Country Club” o “Le Pergole”, divorandone la montagna e i boschi, in cambio della promessa di investimenti sicuri con “vista meravigliosa”;
a Mezz'egra, il nuovo Piano di Governo del Territorio già prevede nuove aree edificabili e il passaggio della nuova Statale Regina innesca il sospetto che siano in previsione nuove colonizzazioni edilizie.
E il lago Maggiore? Cambia il panorama, ma non quello del piano edilizio. Uno su tutti, il caso di Gemonio, dove a cornice della bellissima basilica di San Pietro, ad accogliere l'occhio del visitatore ci sarà a breve un centro commerciale: una valorizzazione creativa anche questa?
dal sito: http://www.fondoambiente.it/attualita/lungo-le-sponde-desolanti-dei-laghi-di-cemento.asp

sabato 20 marzo 2010

CAVA ABUSIVA AL MOREGALLO?


LETTERA DEL BLOGGER ALLE AUTORITA' COMPETENTI
Buon giorno,

Al Sig. Sindaco del Comune di Mandello del Lario
Al Sig. Assessore all'ambiente del Comune di Mandello del Lario
Al Sig. Presidente della Provincia di Lecco

pc: al Sig. Direttore del giornale "La Provincia di Lecco"

Gentilissimi,

torno a scriverVi, a distanza di più di un anno, riguardo alla cava situata presso la località Motel Nautilus, sulla strada provinciale Lecco-Bellagio.

Agli indizi di Dicembre del 2008 ebbi uno scambio di corrispondenza con l'assessore all'ambiente del Comune di Mandello, Luciano Fascendini, e l'allora assessore provinciale all'ambiente, Marco Molgora.

Avendo io chiesto delucidazioni circa le modalità di intervento e di creazione di questa "cava" e dei relativi gravissimi danno all'ambiente, mi fu risposto, dal Sig. Fascendini e dal Sig. Molgora, che non di cava trattarsi, bensì di un'opera di riqualificazione ambientale.

Di fronte alle mie perplessità, entrambi mi rassicurarono che l'opera sarebbe terminata con una riqualificazione totale ambientale e con il ripristino integrale, anzi migliore, dello stato precedente l'attuazione dell'opera stessa, e mi fu anche scritto, che la riqualificazione non avrebbe in nessun modo comportato l'apertura e lo svolgimento di nessuna attività estrattiva.

Orbene dopo tutte queste rassicurazioni, di cui conservo gelosamente copia, constato con amarezza che:

A) Nessuna opera di riqualificazione è stata messa in atto a distanza di ben 15 mesi.

B) L'attività estrattiva e di distruzione dell'ambiente montano continua imperterrita

C) La zona assume di giorno in giorno sempre più l'aspetto definitivo di una cava

D) Persone degnissime di fiducia mi hanno confermato il via vai di camion atti al traporto di materiale estratto dalla cava stessa.

Per rendermi personalmente conto, questa mattina, Sabato 20 Marzo 2009, mi sono recato presso la cava è ho dovuto constatare che:

A) La cava è in piena attività, sebbene chiusa al momento della mia visita.

B) Nessun cartello esplicativo mostrava quale attività si svolga nella zona

C) Nessun avviso, nè del Comune di Mandello del Lario nè della Provincia di Lecco informava di qualsivoglia opera di riqualificazione ambientale

D) L'opera di selvaggia distruzione dell'ambiente montano ha raggiunto oramai termini intollerabili.

Vista la situazione mi sono introdotto, abusivamente (ebbene si, confesso il mio orrendo crimine), nella cava è ho constato che:

A) Proprio di cava estrattiva trattasi, sebbene non ci sia lo straccio di un cartello che lo indichi.

B) Nessuna indicazione circa chi siano i proprietari della, oramai possiamo chiamarla così, cava e nessun recapito telefonico a cui, eventualmente, rivolgersi.

C) Nella cava ho riscontrato effettivamente mezzi atti allo scavo, ma nessuna attività che mostri qualsiasi intenzione di riqualificazione.

Detto ciò sono gentilmente a chiedervi:

Se le rassicurazioni fattemi 15 mesi fa dagli organi istituzionali competenti, Comune e Provincia, sono da ritenere ancora valide, oppure superate dagli eventi. In quest'ultimo caso,chiedo massima trasparenza e spiegazioni complete circa la necessità di avere dato il permesso, spero non trattarsi di cava *abusiva* come tutto fa ritenere, ad un opera che grida vendetta al cielo. A tal proposito Vi invito a guardare lo scempio che avete autorizzato, salvo vostra smentita, che potrete benissimo ammirare dalla sponda opposta del Lago.
Attiro inoltre la Vostra attenzione sul fatto che la provinciale lariana è tristemente nota per frane e smottamenti, per cui non si capisce la necessità di ulteriori scempi ambientali, se di questo trattasi.

Capisco che, come politici siate impegnati nelle imminenti elezioni, pur tuttavia devo informarvi che, in mancanza di Vostre chiare spiegazioni, mi troverò costretto ad agire presso altre sedi, in barba a qualsiasi "par condicio" e a qualsiasi "tregua" elettorale.

Certo che questo non sarà necessario e certo di Vostre urgenti informazioni esplicative in tal senso, approfitto dell'occasione per rivolgerVi i miei più cordiali saluti.

Giancarlo Villa/Valmadrera - Tel: 339-2972464
Movimento delle Agende Rosse di Salvatore Borsellino/Lecco
blog: agenderosselecco.blogspot.com

martedì 16 marzo 2010

N'DRANGHETA A LECCO?


Dal sito www.quileccolibera.net

Tutte le persone coinvolte e/o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenere innocenti fino a sentenza definitiva.

Danny Esposito è il collaboratore di giustizia chiave dell’inchiesta Oversize. Tra i molteplici episodi che racconta ai magistrati, si sofferma a descrivere, con “precisione e piena attendibilità”, un fatto specifico: cioè quando i cugini Trovato, Giacomo ed Emiliano (figlio del boss Franco), concludono un rifornimento di cocaina nell’estate del 2003. Il fornitore si chiama Paolo Schillaci, detto “Paolo il siciliano” per le sue origini agrigentine, alleato con un latitante sudamericano amico di Franco Trovato. La procedura standard è questa: Schillaci procaccia il carico e lo porta agli acquirenti lecchesi, Giacomo si occupa del lavoro materiale mentre Emiliano conta il denaro e “sovrintende”.

Come detto, siamo nell’estate del 2003, Paolo Schillaci ha appena fornito ai due Trovato ben cinque chili di partita di cocaina, quantità ridotta a causa di un arresto imprevisto al confine spagnolo. Il collaboratore Esposito racconta d’aver comunque partecipato ad intense trattative per la successiva fornitura: si stima gravitasse intorno ai 25/50 chili.

Esposito, che parla di Giacomo Trovato come del “fratello che non ho mai avuto”, in occasione dell’affare dei cinque chili, incontra Schillaci tre volte. La prima è sul Lungolago di Lecco per il pagamento della partita. La seconda, e qui comincia a farsi interessante, è – parole testuali della sentenza Oversize – “in occasione del ritiro da parte dello stesso fornitore della Mercedes C SportCoupè a saldo di un chilo di cocaina, autovettura messa a disposizione da Paolo Scola (che aveva degli accordi di cogestione con Giacomo [Trovato, nda], nell’ambito della sua attività di vendita di autovetture)”. Il ritiro sarebbe avvenuto “presso i magazzini di Scola”, a Pescarenico. Al primo incontro, in occasione del quale Esposito sostiene d’aver visto il contatto agrigentino della cosca, Paolo Schillaci viene pagato da Giacomo Trovato. Dove? Presso il Bar Smile di via Torri Tarelli a Lecco. Attenzione però: “si trattava del saldo relativo ai residui quattro chili. Il primo chilo era stato infatti pagato con la macchina”. Quella stessa macchina “messa a disposizione” da Paolo Scola. Ricapitolando: il mafioso siciliano porta con sé cinque chili di cocaina da vendere a sua volta ai cugini Giacomo ed Emiliano Trovato; questi però pagano in contanti soltanto quattro dei cinque chili componenti il carico. E l’ultimo chilo come l’hanno pagato? Stando alla sentenza di primo grado Oversize, attraverso l’auto “messa a disposizione da Paolo Scola”.

La sentenza Oversize riporta ancora passaggi determinanti: “durante il controesame della difesa, Schillaci ha precisato come la consegna dell’autovettura al detto imputato fosse avvenuta in Pescarenico, ove per l’appunto si trovava il capannone nel quale la concessionaria Scola teneva in deposito le auto”. Paolo Schillaci si fa accompagnare a ritirare l’auto sportiva da un uomo, un calabrese, a cui fa intestare il veicolo della casa tedesca. Un certo Fiumanò, secondo i giudici ancora latitante, che nel luglio 2003 diventa quindi proprietario della Mercedes. Faccenda curiosa: a metà del 2002, Paolo Scola – tramite la sua “Scola Paolo Srl”, ora formalmente cancellata, con “ufficio e deposito” proprio in via Plava a Lecco – acquista l’auto tedesca, nuova, di colore blu al prezzo di 29.600€ dalla concessionaria di Borgo D’Ale che a sua volta l’aveva importata dalla Germania. Nel luglio 2003 ecco il passaggio a Fiumanò per il prezzo di 25.000€ (la sentenza non ha dubbi: “valore compatibile con quello di un chilo di cocaina”). Pagamento, quello di Fiumanò a Paolo Scola, che però “non risulta tuttavia in alcun modo documentato [...] nemmeno, sempre stando a quanto riferito dal detto testimone (Vincenzo Pasquale, nda) con un’annotazione stampigliata sulla fattura di vendita, come di regola accade nella prassi commerciale”. Quindi l’auto passa al guardaspalle di Schillaci (Fiumanò) senza che vi sia alcuna traccia dell’operazione. Nemmeno un’annotazione da parte del venditore (Paolo Scola).

Un regalo oneroso? Un gesto brillante? Secondo la sentenza no: sarebbe stata una contropartita. Il Tribunale ha interpellato nel febbraio ‘09 proprio Paolo Scola. Casualità ha voluto che si sia avvalso della facoltà di non rispondere. Esistono però “rapporti stretti” tra Paolo Scola e Giacomo Trovato (definito “socio di fatto” in certi affari di Scola). Rapporti documentati da “risultati delle intercettazioni telefoniche su un’utenza in suo al medesimo imputato (Giacomo Trovato, nda)”, spiega la sentenza. Il 30 ottobre del 2004 è “papà Mario” (Mario Trovato, fratello del boss Franco Trovato) ad informarsi con il figlio Giacomo dello stesso Paolo Scola. Poi ancora il 12 novembre ‘04: (indicati con “M” Mario Trovato e con “G” Giacomo Trovato): M: “A Paolo non l’hai visto a Paolo?”, G: “…è pieno”, M: “Di macchine? Sempre di importazione?”, G: “Sì, Mò che si prende…”, M: “Non le puoi targare per che cosa?”, G: “E non le puoi targare… macchina…”, M: “E perché non la puoi targare?”, G: “Eh, perché… è un casino con queste macchine…”. I giudici non hanno dubbi: quel “Paolo” è certamente Paolo Scola. E poi ancora il 7 e il 28 febbraio 2005, quando Mario Trovato e Paolo Scola parlano direttamente al telefono. Mario Trovato è in carcere, Paolo Scola è gradito ospite a casa del figlio.

Chi è Paolo Scola? Paolo Giovanni Scola, stando a recenti visure camerali, è nato nel maggio 1968 a Lecco. La sua “Scola Paolo Srl”, quella di cui parla la sentenza Oversize, si trovava effettivamente a Pescarenico, esattamente in via Plava 5. Non era l’unico socio: vi faceva parte anche la signora Elena Rota, coetanea di Scola, seppur con una quota inferiore. Il caso vuole che entrambi, Scola e Rota, abitino ad Abbadia, tutti e due in via Nazionale e tutti e due allo stesso civico. E’ bene ricordare che Elena Rota e Paolo Scola non sono mai stati indagati, imputati o condannati all’interno del processo di mafia Oversize. Il secondo risulta “soltanto” nominato, qualche volta anche severamente. Ora, secondo le più recenti visure camerali, la “Scola Paolo Srl” – nata nel 2002 – risulta “cancellata” (nell’aprile del ‘08). Al suo posto, inteso in via Plava, s’è insediata la “Elite Car Srl”, riservata ad una clientela di un certo calibro come lo stesso nome sottolinea; tra i soci e/o titolari di quote Paolo Scola non compare più, è rimasta soltanto Elena Rota. Quest’ultima, in passato, già socia della “Tellina Srl” (costruzione, ristrutturazione, gestione e locazione di beni immobili, nonché costruzione di strade e opere edilizie in genere) di via Filzi a Lecco, proprietaria – con lo stesso Paolo Scola – della “Belsal Srl” (commercio all’ingrosso ed import-export di autoveicoli) poi ceduta nell’aprile del 2008 a Salvatore Bellarosa e quindi trasferita a Milano, proprietaria – sempre con Paolo Scola – e poi amministratore unico della “Immobiliare Claudia Srl” – formalmente “cancellata” perché trasferita a Milano – con sede legale, fino al novembre del ‘08, indovinate un po’, in via Plava a Pescarenico.

Duccio Facchini

MATTEO MESSINA DENARO



di Rino Giacalone - 15 marzo 2010
Qual’è il volto della mafia trapanese? È il viso di imprenditori, professionisti, di insospettabili commercianti, uomini che hanno scelto di servire il capo mafia latitante Matteo Messina Denaro non nascondendo la devozione riservata nei suoi riguardi, «è il capo di tutto» lo appellano.



C’è affianco a questi volti quelli della vecchia mafia che non abbandona mai il campo, come quella di «don» Nino Marotta, classe 1927, castelvetranese: fu «consigliori» del patriarca della mafia belicina, «don» Ciccio Messina Denaro, adesso lo è del figlio, Matteo, 48 anni il prossimo aprile, latitante dal 1993. Marotta era tra quelli che convocava i «summit» quando c’era qualcosa da decidere, dentro una officina di Castelvetrano, il segnale erano le sue parole che annunciavano a chi doveva esserci «che il pezzo di ricambio era arrivato». Una cerchia di 18 persone finita in manette stanotte a Trapani nell’operazione “Golem II”, 18 persone fermate per ordine della Procura antimafia di Palermo, provvedimento eseguito dai Poliziotti delle Mobili di Trapani, Palermo e dello Sco. Una mafia tutt’altro che remissiva, in ritirata, pronta a compiere balzi in avanti e per questo la Dda di Palermo (procuratore aggiunto Teresa Principato, pm Paolo Guido e Marzia Sabella) non ha voluto attendere i tempi per la emissione da parte del gip di una ordinanza di custodia cautelare ed ha deciso di agire con i fermi. Ad agire la scorsa notte il «pool» che ha condotto le indagini, gli agenti delle squadre mobili di Trapani e Palermo e dello Sco (servizio centrale operativo di Roma). La notte scorsa sono andati a bussare alle porte di personaggi insospettabili, alle abitazioni dei familiari del latitante, nella casa della madre Lorenza dove vive anche la compagna del boss, Francesca Alagna, che a Matteo ha dato una figlia oggi quindicenne e che porta lo stesso nome della nonna. Una casa dove in ogni stanza ci sono due foto poste sui mobili, quella di Francesco, morto in latitanza nel 1998, di crepacuore per l’arresto del figlio Salvatore, oggi tornato in manette, e quella di Matteo, il segno preciso è dire che «loro ci sono». Caparbietà trasferita anche all’esterno come testimoniano le intercettazioni che hanno permesso di ascoltare i complici di Matteo Messina Denaro discutere di tante cose.

Il vertice. La mafia trapanese è nelle mani dei più stretti parenti del super boss, il fratello Salvatore Messina Denaro, il cognato Vincenzo Panicola, Giovanni e Matteo Filardo, suoi cugini. Loro guidavano il «cerchio» di persone più vicine al latitante, Salvatore Messina Denaro era indicato da tutti come «la testa dell’acqua», arrestato l’altro suo cognato, il bagherese Filippo Guattadauro, toccò a Salvatore diventare il referente per i contatti da e per il fratello latitante. Quella della scorsa notte è l’operazione che è il seguito di quella dell’estate scorsa, «Golem» quando furono arrestati i «pizzinari» che gestivano il circuito esterno, quelli di ora sono soggetti vicinissimi al latitante, che hanno avuto (lo tradiscono nelle loro discussioni finite intercettate) occasione di incontrarlo, come racconta di avere fatto l’imprenditore di Castelvetrano Giovanni Risalvato, lo stesso che è pronto a mettersi a disposizione per fare da manovale, andare a bruciare la casa per esempio del consigliere comunale del Pd di Castelvetrano Pasquale Calamia, «punito» in questa maniera per avere auspicato durante una seduta consiliare (presente il prefetto Trotta) l’arresto del latitante così da cancellare la nomea di Castelvetrano città di Messina Denaro.

Gli arrestati. A finire in manette sono stati: Salvatore Messina Denaro, 57 anni, Maurizio e Raffaele Arimondi, 44 e 50 anni, Calogero Cangemi, 61 anni, Tonino Catania, 43, Lorenzo Catalanotto, 30 anni, Andrea Craparotta (detto Giovanni), 46, Giovanni e Matteo Filardo, 47 e 42 anni, Leonardo Ippolito, 55, Marco Manzo, 45, Antonino Marotta, 83, Nicolò Nicolosi, 39, Vincenzo Panicola, 40, Giovanni Risalvato, 56, Filippo Sammartano, 52, Salvatore Sciacca, 30, Giovanni Stallone, 52. Tra i 18, sei sono imprenditori, Raffaele Arimondi, Calogero Cangemi, Giovanni e Matteo Filardo, Nicolò Nicolosi, Vincenzo Panicola; due commercianti Maurizio Arimondi e Giovanni Stallone. Nel corso dell'operazione, sono state eseguite oltre 40 perquisizioni, nelle province di Trapani, Palermo, Torino, Como, Milano, Imperia, Lucca, Siena e Caltanissetta, nei confronti di altrettanti soggetti, ed è stato eseguito il sequestro preventivo penale di un'impresa commerciale per la distribuzione all'ingrosso di caffè e prodotti dolciari (la società Ari gestita da Salvatore Messina Denaro), di un centro revisioni e officina autorizzata Alfa Romeo e di un esercizio pubblico.

Il reticolo che custodisce il capo mafia latitante poco alla volta sta venendo alla luce, si scoprono i capi saldi, i punti di riferimento, i complici, vicini e lontani, gli arresti di oggi sono il prosieguo dell ’indagine «Golem» del giugno scorso quando gli arrestati furono 13, la «prima filiera esterna« di sostegno a Matteo Messina Denaro, con alcuni, come Francesco Luppino e Natale Bonafede, che garantivano i contatti con gli allora vertici regionali di «Cosa Nostra», tra cui, Salvatore Lo Piccolo. Gli arresti costituiscono un nuovo step tattico nella strategia investigativa volta alla individuazione progressiva dei successivi livelli gerarchici di responsabilità che costituiscono la filiera funzionale dei sostenitori del latitante castelvetranese». Una cerchi di sodali che si occupavano di estorsioni, danneggiamenti, di trovare un rifugio al latitante, della occulta gestione delle «casseforti» del boss. Punti di riferimento Salvatore Messina Denaro e Vincenzo Panicola, ma anche soggetti come Giovanni Risalvato e Leonardo Ippolito, veri e propri trait-d'union tra le due fasi gestionali della compagine mafiosa. L’officina Alfa Romeo di Ippolito era adibita a luogo sicuro dove di norma avvenivano gli incontri, sempre presenti Filippo Guttadauro, fino al suo arresto, Nino Marotta, Giovanni Risalvato, Giovanni Filardo, Lorenzo Catalanotto, Girolamo Casciotta, ora deceduto, e Tonino Catania, quest’ultimo specialista negli incendi.

L’attività mafiosa. La spartizione di lavori tra imprenditori organici o contigui a «Cosa Nostra» castelvetranese, regolamentarne o incentivarne le attività lavorative quali l'affidamento di lavori in sub appalto, condizionare nell’area di Castelvetrano il sistema produttivo del conglomerato cementizio, del movimento terra e di altri settori produttivi connessi, per la fornitura del calcestruzzo alle imprese che operavano nella zona di Castelvetrano. Oppure occuparsi direttamente dei nascondigli del latitante, un passaggio finito intercettato quando ad occuparsene su incarico di Filippo Guttadauro dovevano essere proprio Tonino Catania, Giovanni Risalvato e l’imprenditore caseario di Partanna Calogero Cangemi, che aveva frequentazioni importanti anche con mafiosi agrigentini, come Gino Guzzo, arrestato di recente. Doveva essere una casa con grandi comodità per ospitare Messina Denaro. L’officina di Ippolito non era l’unico luogo degli incontri. Salvatore Messina Denaro spesso preferiva parlare con i suoi «amici» all’esterno, in piazza, in riva al mare, a Tre Fontane, in un appezzamento di terreno nei pressi di una folta vegetazione di alberi di ulivi, oppure a Campobello nei pressi di una statua votiva di San Padre Pio. Il gruppo finito in manette la notte scorsa nell’operazione «Golem seconda fase» è quello che si occupava della trasmissione della corrispondenza da e per il soggetto latitante, nonché del reperimento periodico di somme di denaro per il suo sostegno logistico. Le intercettazioni hanno consentito di accertare il confezionamento di involucri di piccolissime dimensioni, arrotolate accuratamente nel nastro adesivo, in cui venivano racchiuse banconote da 500 euro da inviate a Matteo Messina Denaro, ancora appellato, come avveniva 12 anni addietro, quando l’operazione «Progetto Belice» tradiva che Matteo era appellato come «u siccu». Oggi Matteo è anche indicato come «il primo assoluto», proprio per segnare il suo comando incontrastato della mafia in Sicilia Occidentale. In una intercettazione ambientale del 15 novembre 2008, fatta a Palermo, Giuseppe Scaduto, relazionando i suoi interlocutori sull'incontro avvenuto il giorno prima con il gruppo dei dissidenti (a cui pure aveva partecipato l'allora latitante Giovanni Nicchi), riferiva che la fazione legata a Gaetano Lo Presti aveva tirato fuori un pizzino di Matteo Messina Denaro, che pur dichiarandosi a disposizione di tutti, non era intenzionato a «riconoscere» nessuno come nuovo capo della commissione provinciale.
Matteo Messina Denaro, dunque, pur non potendo formalmente rivestire cariche verticistiche nella consorteria palermitana a lui estranea, si poneva e si pone come l'unica figura carismatica a tutt'oggi capace di imprimere le linee strategiche dell'intera Cosa nostra e il cui orientamento finisce per assumere carattere imperativo.

I pizzini, istruzioni per l’uso. È stato possibile ricostruire la tempistica della corrispondenza inviata dal latitante e delineare anche il ruolo dei soggetti coinvolti e arrestati. L'apparato delle comunicazioni è strutturato, a differenza di quanto accadeva nella catena epistolare del boss corleonese Provenzano, nell'osservanza di due ferree regole, divieto di lasciare traccia materiale sia dei biglietti che dei movimenti posti in essere per la consegna/prelievo degli stessi , nonché ridurre al minimo il numero dei tramiti e le occasioni in cui la posta viene veicolata. E spunta ancora il Sisde di Mori. Parte dell’indagine è anche dedicata ai contatti – ancora pizzini - tra Messina Denaro e l’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino che tra il 2003 ed il 2006 su incarido di alti funzionari dell'ex «SISDE» teneva contatti con il boss. Una parte dell’indagine scottante, per la quale la Procura ha scritto alla presidenza del Consiglio a proposito di alcune intercettazioni che hanno riguardato uomini dell’allora capo del Sisde prefetto Mori, l’intervento dei servizi segreti è stato tenuto anche all’oscuro della Procura antimafia di Palermo, e questo fino al 2006 quando i pizzini trovati nel covo di Provenzano tradivano contatti che Matteo Messina Denaro aveva con un certo “Vac”, lo indicava al boss di Corleone come un suo paesano, che sarebbe dovuto intervenire su alcuni appalti, come la costruzione di un’area di servizio sull’autostrada dalle parti di Alcamo. Solo in quel momento il Sisde avrebbe deciso di rilevare che Vac, cioè Vaccarino, era un loro informatore. L’analisi degli specialisti della Polizia ha permesso di scoprire che il latitante Matteo Messina Denaro è solito mandare i suoi pizzini in tre precisi momenti dell’anno, tra gennaio e febbraio, tra maggio e giugno e tra settembre ed ottobre. Il “viaggio” di questi pizzini non è di breve durate, di solito occorrono almeno tra le due e le quattro settimane.

Contatti dal carcere. Ma c’è di più, emerge ancora il ruolo di un altro potente uomo del Belice, l’imprenditore Giuseppe Grigoli, il «re» dei centri commerciali Despar, arrestato due anni addietro e oggi sotto processo a Marsala, coimputato con Messina Denaro: sia prima che dopo il suo arresto, e quindi, nonostante la detenzione, è riuscito a mantenere contatti attraverso i familiari con la consorteria mafiosa, in particolare con Salvatore Messina Denaro, lui che davanti ai giudici aveva detto che «mai aveva avuto contatti con i boss». Familiari di Grigoli, come la moglie, Maria Fasulo, sono tra i destinatari dei 40 avvisi di garanzia emessi dalla Procura antimafia di Palermo, indagati per favoreggiamento.

Panettoni e colombe pasquali per le estorsioni. Nell’indagine c’è poi il capitolo sui attentati, incendi, danneggiamenti, nei confronti di commercianti, imprenditori, soggetti politici, nonché alle gestione occulta di imprese, società e beni, attraverso specifici casi di trasferimento fraudolento di valori, intestazioni fittizie a fidati prestanome. Una delle aziende è la «Ari Group srl», società per l'importazione, l'esportazione ed il commercio all'ingrosso ed al dettaglio di caffè, interamente intestate a Maurizio Arimondi e al figlio Antonino,ma nella mani di Salvatore Messina Denaro. Filippo Sammartano di Campobello di Mazara gestiva la «Mac. One» col cognato Giovanni Stallone. Sembra che l’azienda veniva usata per estorcere denaro ad imprenditori, costretti a comprare sostanziose forniture di panettoni e colombe pasquali a secondo dei periodi dell’anno.

Il fuoco per le intimidazioni. A proposito di attentati incendiari a scopo intimidatorio o estorsivi, emergono i seguenti: l'attentato incendiario a scopo intimidatorio perpetrato, nei confronti dell'imprenditore Francesco Perrone, amministratore dell'impresa «Perrone Costruzioni srl», commissionato da Leonardo Ippolito a Tonino Catania e Girolamo Casciotta, che a loro volta coinvolgevano anche Salvatore Lombardo, ucciso nel maggio dell’anno scorso a Partanna; il tentativo di incendio, a scopo estorsivo, nei confronti dei proprietari del bar denominato «Caffè Roma» di Castelvetrano, per indurre i titolari nel recedere dall'acquisto dell'immobile, dove aveva sede l’esercizio commerciale; l’'attentato incendiario a scopo intimidatorio delle strutture di proprietà dell'impresa impegnata nella realizzazione di un serbatoio da 3.600 mq e delle condotte di alimentazione dal punto di presa Acquedotto Bresciana, lavori appaltati dal comune di Castelvetrano.
All’opera sono stati visti grazie alle intercettazioni video, Giovanni Risalvato, Lorenzo Catalanotto, Tonino Catania, il pregiudicato mafioso campobellese Marco Manzo, oltre che di Nicolò Nicolosi negli incendi tra l' ottobre 2008 ed il marzo 2009, l’incendio in diversi momenti delle tre auto intestate al pregiudicato Severino Lazzara, dell’auto di Nicola Clemenza, presidente del consorzio per la tutela e la valorizzazione dei prodotti agricoli del territorio della valle del Belice, il quale aveva rivendicato i diritti degli agricoltori oleari costretti dal mercato a vendere il prodotto a prezzi stracciati; l'incendio nel novembre 2008 della villetta sita in Castelvetrano, località Triscina, in uso a Pasquale Calamia, consigliere comunale di Castelvetrano del Pd, il quale nel corso di un consiglio comunale, nel mese di giugno del 2008, aveva formulato pubblicamente al Prefetto di Trapani l'auspicio che la latitanza del Matteo Messina Denaro, che era una offesa per la città di Castelvetrano, potesse terminare in tempi brevi. Agli atti di indagine c’è l’estorsione all’imprenditore di Ganci Luigi Spallina ordinata da Salvatore Messina Denaro. Spallnina era aggiudicatario dell'appalto per il polo tecnologico integrato in contrada Airone di Castelvetrano, appalto di Belice Ambiente Ato Trapani 2, per un importo di euro 2.936.597. Messina Denaro chiese il 3 per cento, 100 mila euro.

Le regole. La regola che funzionava era quella che a pagare il pizzo dovevano essere le imprese non del territorio, gli «stranieri», per le imprese locali valeva un’altra regola quella di acquisire le commesse, cemento, ferro, inerti, sub appalti, presso le società della mafia, ma per ottenere ciò i boss non dovevano faticare per favorire le società loro vicine o da loro stesse controllate, le commesse arrivavano in modo automatico, in virtù di quel sistema che ha permesso alla mafia di diventare impresa. E al solito non c’è imprenditore che si lamenta. Anzi è pronto a diventare uomo nelle mani del boss pronto a imparare a memoria la ortodossia mafiosa, quella che Messina Denaro aveva spiegato nei pizzini inviati a Vaccarino dove palava di persecuzione giudiziaria e di una guerra che deve ancora continuare. Intanto oggi a perdere è stato lui, non ha più a disposizione i complici più fidati.

lunedì 15 marzo 2010

FILTRI ANTIPARTICOLATO


Un articolo del Prof. Stefano Montanari.

Sembra impossibile a chi abbia qualche nozione scientifica, ma i filtri antiparticolato sono diventati obbligatori. Questo, per ora, limitatamente alla Lombardia, ma quando un’infezione si manifesta e niente, nemmeno l’omeostasi, cioè la capacità naturale dell’organismo di riportarsi in stato di salute, la combatte, è inevitabile arrivare ad una setticemia che, vista la mancanza di reazione, si rivelerà mortale.

Detto così, sembrerebbe una battuta adattata da un medico del teatro di Molière, e invece è una delle troppe poco allegre verità del 2010.

Una volta per tutte, vorrei chiarire finalmente la questione, visto che continuo a ricevere sollecitazioni.

Come ho scritto ormai fino allo sfinimento e come ho spiegato nei particolari nel mio libro Il Girone delle Polveri Sottili, l’inquinamento da

polveri viene valutato legalmente, seppure senza basi scientifiche, per via gravimetrica, vale a dire, semplificando un po’, pesando quanta polvere di diametro uguale o inferiore a 10 micron (per le PM10) oppure uguale o inferiore a due micron e mezzo (per le PM2,5) sta in un metro cubo d’aria. Esistono valori stabiliti per legge che non devono essere superati, valori che, peraltro, ancora una volta non hanno significato dal punto di vista scientifico, ma un numero bisognava pur darlo ai magistrati.

E se li si superano? Beh, in pratica non succede niente, perché la cosa è talmente diffusa da ricadere nel mal comune mezzo gaudio. Però, se mai diventassimo un paese serio, potrebbero esserci sanzioni per i comuni nel caso in cui lo sforamento dovesse avvenire.

E, allora, che si fa? Invece di combattere l’inquinamento s’imbrogliano le macchinette che quell’inquinamento dovrebbero rilevare, e vissero (?) tutti felici e contenti.

Nei fatti, dalla camera di scoppio dei motori Diesel escono polveri carboniose relativamente grossolane. Queste vengono catturate dai filtri antiparticolato sistemati lungo il tubo di scarico e la cosa va avanti fino a che il filtro non è intasato, cosa che accade ogni poche centinaia di chilometri.

A questo punto, o si toglie quella roba o la macchina si ferma e non riparte.

L’ideatore del sistema - e dopo l’invenzione originale di oltre 10 anni fa d’ideatori ce n’è stato più d’uno – ha previsto che, quando l’automobile non circola in città, avvenga una combustione dei residui carboniosi contenuti nel filtro e quella roba finisca in atmosfera ossidata in CO2 .

Tutto bello? Mica tanto.

Per prima cosa è inevitabile osservare come avere un filtro che oppone una contropressione ai gas di scarico - contropressione che aumenta via via che il dispositivo si riempie - non possa che incidere sui consumi di carburante aumentandoli perché aumenta il lavoro compiuto dal propulsore. E, fingendo che la spesa maggiore non sia un problema, resta il fatto che più si consuma, più s’inquina.

Poi occorre sapere che nei residui carboniosi sono contenute micro- e nanoparticelle inorganiche. Senza filtro, queste resterebbero inglobate nel carbone, ma, con il filtro che brucia il carbone, quelle particelle finiranno inevitabilmente in atmosfera. E chi non conosce l’effetto delle micro- e nanopolveri sulla salute, e in particolare quella dei bambini, può informarsi leggendo i miei libri.

Qual è il trucco per aggirare le centraline di rilevamento delle polveri? Semplice: le macchinette pesano i materiali solidi e basta. Dunque, se io trasformo il carbone (solido) in anidride carbonica (gas), non peserò più niente e il gioco è fatto. Il problema è che la quantità d’inquinanti effettivamente immessa in atmosfera aumenta significativamente perché il carbonio di cui è costituita la particella che viene bruciata ha un peso atomico pari a 12, mentre l’anidride carbonica in cui quel carbonio si è trasformato per combustione, cioè per ossidazione, ha un peso molecolare di 44. Il che comporta una conseguenza ovvia: la sostanza gassosa emessa (inquinante) è 3,66 volte superiore a quella che sarebbe stata senza filtro. Certo, nessuno me ne rende edotto e, come recita il proverbio, occhio non vede, cuore non duole.

Che dire, poi, dell’ossido di cerio (CeO2) o del ferrocene [Fe(C5H5)2 ] usati dai diversi filtri per funzionare? Null’altro che si tratta d’inquinanti che non entrerebbero nell’ambiente se i filtri non esistessero, per il semplice fatto che non sarebbero usati. Perciò, un inquinante in più di cui, magari, non sentivamo il bisogno.

E, dulcis in fundo, a fine vita dell’ingombrante, costosissimo dispositivo (presumibilmente una vita non molto più lunga di 100.000 km), nessuno saprà dove metterlo perché quello non è stato studiato in modo da renderlo riusabile o, comunque, riciclabile.

Un’ultima chicca: quando la spia che segnala l’intasamento si accende, chi viaggia prevalentemente in città come spesso avviene soprattutto nelle metropoli ha due opzioni: una è andare in officina ad effettuare la “rigenerazione” (soldi, tempo e inquinanti che da qualche parte devono pure andare) e l’altra è di fare una bella corsa a tutta velocità in autostrada schizzando anidride carbonica e micro- e nanopolveri più gli additivi nell’ambiente.

Grazie, Lombardia: l’importante era dare l’esempio.

venerdì 12 marzo 2010

DIFENDIAMO L'ULTIMA OASI DI LIBERTA'




Tratto dal blog: http://lavoce2009.ilcannocchiale.it/

Ci stiamo giocando ciò che di piu' preziosi ci è rimasto, la rete, una specie democratica in via di sviluppo in mezzo a tante specie democratiche in via di estinzione.
Non so se ne siamo consapevoli, ma questo possibile provvedimento, se trasformato in qualcosa di piu' concreto, rischia di diventare una ennesima legge ad personam.
E' sempre bene ricordare e ricordarci(visto che la vita reale può portarci fuori strada), che le leggi dovrebbero migliorare le condizioni di tutti, anche se da anni servono a soddisfare le necessità di pochi. Forse questa è l'unica regole che non hanno mai infranto: non si fa nulla se non porta un vantaggio, ma il peggio deve ancora arrivare, siamo entrati in un circolo vizioso dove chi si abitua al potere diventa insaziabile, così l'ideazione di questo provvedimento punta a portarne tanti di vantaggi. Insomma, gli attacchi contro la rete potrebbero farci scendere un altro gradino in una scala in cui ci sembrava di aver già toccato il fondo. Tutto è stato studiato per prendere due piccioni con una fava, da una parte ci si guadagna dal punto di vista politico, uccidendo le ultime forme di democrazia, dall'altra ci si guadagna sotto il punto di vista aziendale, poiché Mediaset si sta già leccando i baffi.

E non sarebbe neppure la prima volta, di tentativi di censura piu' o meno subdoli ne abbiamo già visti tanti, Dal decreto contro il Wi-Fi del 2005 all'articolo ammazza-blog del disegno di legge sulle intercettazioni. Prima dovevano nasconderceli ora grazie al gesto di un pazzo possono benissimo sbandierarli e sfruttarli, perchè no, per guadagnare un pò di consenso. Facendoci credere che siano necessari per proteggere la nazione dai Tartaglia di turno.
In realtà i propositi di Maroni di combattere gli usi impropri della rete hanno una funzione ben diversa, in fondo non sarà di certo un Duomo in miniatura a poter turbare la tranquillità del premier, non ci dimentichiamo che stiamo parlando dell'uomo che considera una bomba un "gesto affettuoso"(intercettazione tra Berlusconi e Dell'Utri sulla bomba posizionata nella villa di B. da Mangano, ndr).
Gli obbiettivi sono altri, e neanche troppo nascosti: Se ci fosse una rete debole, riviste e tv di Mr.B, che hanno bisogno di pubblicità come noi dell'ossigeno, potrebbero riavere gli spazi pubblicitari che erano transitatati sul web(e "pubblicità" in berlusconiano significa soldi a palate), oltre che riavere le fetta di pubblico che predilige sempre piu' il consumo On-line ai programmi televisivi e le riviste di gossip.
Anche se la motivazione piu' importante è certamente quella che riguarda i vantaggi politico-sociali, la rete fa paura da sempre ai poteri forti, perchè permette agli individui di usare i neuroni, di interagire, di capire e soprattutto di scegliere,contrariamente alla tv. Internet da la possibilità di scambiarsi informazioni e costituisce un sistema pluridirezionele, dove ognuno può intervenire e modificare un prodotto. Non c'è nulla che potesse fargli piu' paura. E' l'esatto opposto di quello che avevano pianificato già dai tempi della P2, il sogno di un sistema unidirezionale in cui gli utenti sono soggetti passivi e subiscono tutto ciò che il proprietario dei mass-media, nonchè presidente del consiglio, gli propina.
Non possono permettere che il progetto di Rinascita Democratica riuscito al governo Berlusconi meglio di quanto potesse immaginare lo stesso Licio Gelli, venga spazzato via da quattro universitari che smanettano dietro una tastiera.
Temo, però, che il problema sia anche di carattere puramente anagrafico, il problema non è il web, unico strumento di libertà sopravvissuto, ma l'ignoranza e la vecchia della politica italiana, che critica senza conoscere. Per Schifani "Facebook è piu' pericoloso dei gruppi degli anni '70", secondo Franceschini "è importante distinguere il popolo vero da quello virtuale", forse pensa che i profili FB appartengano ad anime disincarnate, mentre per Berasani internet è semplicemente "un ambaradan" e spiega di non aver aderito al No-B day "per non imbucarsi in cose della rete", il piu' moderato, Emilio Fede, sostiene invece che facebook sia luogo "di violenza e di paranoia". Qualche volontario dovrebbe offrirsi di spiegargli che su facebook ci sono persone in carne ed ossa, anche i loro elettori e i loro fan, per essere precisi i navigatori italiani sono la metà della popolazione, ma ciò che è piu' importante che sappiano è che la rete è lo specchio della realtà, luogo di confronto tra persone completamente diverse e che categorizzarla come nera o bianca, buona o cattiva è impossibile, perchè sarebbe come categorizzare come buona o cattiva l'intera popolazione mondiale, fare di tutta l'erba un fascio è inutile e superficiale oltre che da ignoranti.
Solo in Cina, Birmani e Iran esistono provvedimenti speciali di censura o controllo di internet, difendiamo la rete per difendere una libertà agonizzante, perchè è grazie alla rete se Sonia Alfano è al parlamento europeo e se Obama ha preso il posto di Bush, è grazie alla rete se è nato e si è organizzato il popolo delle Agende rosse, è sulla rete che Beppe Grillo porta avanti le sue battaglie.
I mondo va avanti e guarda al web, se ne faranno una ragione anche i sarcofagi di Andreotti e Schifani.

Cecilia Sala